L’architetto Lipparini: «Così nacque la città»
Insieme a Corradi e Lugli fu protagonista dello sviluppo urbanistico nei quartieri «Un tempo potevamo creare e sperimentare. Oggi a Modena serve coraggio»
Il computer ce l’ha “ma non sono uno che smanetta”. Di tecnigrafo ne è rimasto uno “per lo più usato come tavolo d’appoggio”. La matita è sempre al suo posto “perché guai se mancasse lo schizzo”.
Franco Lipparini, 78 anni, è uno di quegli uomini che ha disegnato Modena. E ne va fiero. La prossima settima l’ordine professionale degli architetti festeggerà i suoi primi 50 anni di attività, iniziata nel 1964, con la laurea in architettura a Firenze ottenuta con una tesi proprio sul centro storico di Modena: “Iniziavamo a mettere in pratica idee concrete per lo sviluppo urbanistico della nostra città e avevamo una fortuna: potevamo sperimentare”. Eccome. Non c’è pezzo di città, percorrendola lungo gli assi principali, che non porti la sua firma, condivisa negli anni del boom con i colleghi Roberto Corradi e Tiziano Lugli: tre architetti che di Modena hanno fatto la storia, prima insieme, fino agli anni Novanta, poi ognuno con percorsi diversi ma che hanno sempre lasciato il segno. Quello di Lipparini è indelebile nelle scelte di cuore. Non racconta le linee, spiega il coinvolgimento del professionista che all’estro unisce il rispetto per ciò che sta creando e soprattutto per chi, quegli spazi, dovrà viverli. Che siano case o scuole, grandi opere o restauri, ogni schizzo ha il suo pezzo di cuore. Che ancora oggi batte nello studio di via Sgarzeria insieme al figlio Lorenzo, anche lui architetto, che lo affianca da vent’anni.
Architetto cominciamo dall’inizio: che anni erano?
«Modena era ai vertici di tutte le classifiche, soprattutto quelle del Pil. Era una città fatta di competenze, competenze che si potevano esprimere e ne vedevi i risultati. Una città molto stimolante. Tanto che decisi senza dubbi di viverci».
Detta da un bolognese…
«Per me fu scontato: ero giovanissimo e questa era una città del fare, un piacere lavorarci. Non la lasciai più».
Come iniziò?
«Lavoravo nel mio studio, erano gli anni del piano regolatore del 1965, e contemporaneamente il Comune mi affidò una consulenza con l’ufficio urbanistica. A me, giovane, trovarmi subito dall’altra parte, mi diede la possibilità di capire che cosa stava davvero succedendo. La città era pronta a nascere. Ancora oggi ci penso: il parco Amendola Nord – da viale Amendola a via Sassi – è ancora lo spazio verde più alberato di Modena. Fu un mio pallino».
Gli anni ’70 sono quelli dello sviluppo: Modena si allarga creando nuovi quartieri.
«La fine degli anni Sessanta fu fondamentale per le sperimentazioni che facemmo sulla residenza proprio mentre Modena aveva fame di alloggi. Le prime realizzazioni non si possono chiamare villette o condomini, piuttosto aggregati di unità abitative, al massimo di due piani con un concetto di schiera che non è quello che si intende oggi. Basti pensare al Villaggio Zeta e a cosa, ancora oggi, rappresenta. Poi il piano Peep, che rappresentava, oggi come a quel tempo, una vera esigenza».
C’era l’imbarazzo della scelta.
«Ma cercammo in tutte le nostre scelte di privilegiare sempre la qualità. Fu una delle scelte vincenti fatte con i colleghi Corradi e Lugli. Lavorare non solo per il gusto di farlo ma anche per il gusto degli altri. Una volta il bello era codificato: proporzione, prospettiva e inserimento nel contesto erano categorie chiare e spesso obiettive. Oggi giudicare è impossibile».
Come giudica oggi ciò che ha fatto nei suoi primi anni di attività?
«Il giudizio lo lascerei agli altri. Io dico solo che siamo stati coraggiosi. Pensate solo al colore: si usavano solo il grigio, il bianco e il marroncino. Per primi abbiamo introdotto il blu, il verde, i colori caldi. Penso al Villaggio Giardino di fine anni Settanta, alla zona del parco Amendola, fino a Salvo d’Acquisto Nord di metà anni Ottanta. Poi anche lo sviluppo dei materiali ci ha dato un aiuto: l’acciaio e il vetro cominciavano a vedersi ma non erano diffusi».
Modena, invece, fece scuola: il Direzionale 70, che piaccia o no, è uno dei simboli che identifica la città.
«Ancora oggi ci sono i critici ma a quel tempo molti capirono cosa c’era dietro. Il Direzionale 70 va visto al di là delle torri inclinate. E’ un edificio nuovo in tutti i sensi, moderno sia nelle forme e sia nella sostanza. Ha rappresentato uno sforzo notevole: una piazza pedonale al primo piano, due ponti che scavalcano via Giardini e la tangenziale. Al giorno d’oggi nessuno si avventurerebbe più in un’opera simile, troppo costosa».
Qualcuno lo abbiamo già nominato, passiamo in rassegna i progetti che più la rappresentano.
«Penso ai Portici, creato insieme ai miei colleghi. Venendo ad anni più recenti al comparto della chiesa di San Paolo al Villaggio Zeta, al Modena Golf e ai recuperi degli edifici all’interno, alla casa di riposo Tenente Marchi di Carpi, alla nuova sede della Saima, esempio di intermodalità. Senza dimenticare le due torri che sono la porta d’ingresso della città per chi proviene da nord: quella di Hera in via Razzaboni e quella del comparto ex Vinacce dove oggi c’è il cinema Victoria. Rappresentano il primo esempio di riqualificazione della fascia ferroviaria».
Gli architetti non sono più quelli di una volta?
«Prima degli architetti è cambiata l’edilizia. Poi è cambiata la società. Infine la professione. Il progettista oggi non è libero come un tempo, non ha più la committenza di un tempo. Una volta c’era uno scambio di idee continuo, rispettoso, coinvolgente anche tra chi lavorava nel privato e si doveva rapportare col pubblico. Era l’ente pubblico stesso a darti coraggio. Oggi questo aspetto si è notevolmente raffreddato per colpa della burocrazia».
E anche di una serie di “no” che, soprattutto negli ultimi anni, hanno condizionato la città. Il dialogo con gli ambientalisti e con la Soprintendenza si è trasformato in scontro.
«Se stiamo ai numeri è tutto molto chiaro: la mania italiana dei regolamenti esasperati è un vincolo per chiunque. Poi c’è la paura delle novità. La novità, una volta, era un valore, oggi è prima di tutto un problema. E’ più facile adagiarsi a soluzioni conformiste per non incappare in nessun rischio».
Rassegnato?
«Per nulla. Non sarei ancora qui. Se ci fosse la volontà di spingere dei risultati si potrebbero ancora ottenere».
Modena cosa ha ottenuto?
«La possibilità di essere una città con una pianificazione urbanistica all’avanguardia. Gli standard di scuole e servizi sono alti, gli spazi sociali, polisportive o luoghi aggregativi, sono una fortuna non da tutti. Senza dimenticare il verde: il parco Ferrari è grande due volte l’autodromo che c’era prima. Fu una scelta intelligente. Ma nonostante tutto Modena poteva ambire a qualcosa di più. La qualità degli edifici è alta, ma non tanto quanto avrebbe potuto essere. Non ha sfruttato le sue possibilità fino in fondo. E’ sempre una questione di coraggio».
Il progetto che la soddisfa di più?
«Ogni progetto è come un figlio, dicono. Non scelgo, anche perché la soddisfazione più grossa è quando qualcuno ti racconta che vive con gioia negli spazi che tu hai disegnato. Quello è impagabile: sapere di avere progettato per il bene degli altri».
Il progetto che vorrebbe fare?
«Qualche titolo lo avrei, ma di questi tempi è rischioso. Diciamo che mi basterebbe avere la possibilità di fare in tempo a farlo».
Festeggia i 50 anni di attività: cosa dice ai suoi colleghi più giovani?
«Il compito futuro dei progettisti e degli amministratori è quello di proiettarsi prevalentemente verso la rigenerazione urbana, che non deve essere solo una bella parola ma soprattutto un impegno».
di Davide Berti
Fonte: Gazzetta di Modena